Pubblichiamo un manoscritto la cui prefazione leggete sotto mentre il resto lo potete scaricare alla fine dell’articolo ringraziando Rocco l’autore del diario per averlo condiviso gratuitamente .
Mi piace leggere. La categoria “diari dal carcere” è sempre stata una
delle mie preferite. Mi piacciono le storie di gente con la forza di
affrontare situazioni difficili, perché ho il sospetto di non averne
abbastanza. Leggere di Papillon che reagisce a un sopruso senza
paura delle conseguenze, mi riscatta un po’ delle mie mediocrità. Al
tempo stesso, qualche volta, abbassa la mia autostima. Penso che io, di
fronte alla metà delle difficoltà, soccomberei. Ho letto decine di libri su
esperienze carcerarie, ma non pensavo di dovere un giorno scriverne
uno: non ho il fisico dell’incorregibile.
La mia è un’esperienza carceraria di tipo diverso. Di un tipo di cui
nessuno ha mai scritto o letto finora. Non ho fatto niente per meritarmi
questo primato: è una condizione che si sta rapidamente estendendo
a tutta l’umanità, ma la maggior parte delle persone nemmeno si è
accorta di essere incarcerata.
Gli scritti dal carcere che ho letto sembrano suggerire tutti la stessa
cosa: l’unico carcerato libero è quello che pensa ad evadere. La libertà
non è una condizione esterna ma una disposizione mentale. È una
bella idea: mi fa sentire più libero di com’ero prima. Senz’altro mi
sento un po’stronzo ad aver dedicato energie a progetti più ingenui
che ottimisti: cercare un lavoro migliore, una casa migliore, una vita
migliore. Tutta roba senza senso: ringrazio il carcere per avermelo fatto
capire.
L’unica cosa sensata è elaborare un piano di evasione. Come spesso
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succede, non saprei dove andare. Ma ho anche un problema in più:
il carcere in cui mi trovo confina con altri carceri attaccati gli uni agli
altri. Nè le guardie né i carcerati chiusi negli altri carceri vogliono
nuovi ospiti. Temo che sia rimasta ben poca superficie sul Pianeta
non ricoperta da uno di questi carceri. E più passa il tempo più questa
superficie rimpiccolisce.
Al momento il piano non ce l’ho e nemmeno l’esperienza ma, come
dicevo, ho letto molto.
La prima cosa che fa chi progetta un evasione è indagare la natura
delle persone che lo circondano, scandagliando le varie possibilità
umane tra la categoria migliore “possibile compagno di fuga” a
quella peggiore “infame patentato”. La difficoltà principale sta nel
fatto che queste categorie non sono stabili: il compagno di oggi può
diventare l’infame di domani così come gli infami non sempre restano
infami a vita. Sicuramente la mia valutazione attuale mi fa collocare
la maggioranza delle persone sul fondo della classifica: infamare gli
altri non è mai stato considerato socialmente meritevole quanto lo
è oggi. Le cose hanno buone probabilità di migliorare: ci sono molti
più infami che possono diventare compagni di quanti compagni che
possano diventare infami. Ma per decidere di evadere, bisogna prima
riconoscere la propria condizione di carcerato. Per questo, pur non
avendo il coraggio di Papillon né la penna di Orwell, inizio a raccontare
la mia condizione nella speranza che il lettore vi riconosca la propria.